Nardulè, Fichi d’amore e di passione

Nella tassonomia vegetale è indicato con il nome latino di ficus carica, ovverossia “fico comune”, che è un albero delle moracee – famiglia di dicotiledoni arboree ricche di latice – con corteccia grigia e foglie palmato-lobate, di colore verde intenso. Deve il suo altisonante nome latino al grande studioso di botanica, lo svedese Carlo Linnèo (1707-1778), autore di un nuovo metodo di classificazione delle piante intitolato, sempre in latino, Nomenclatura binomiale. Quest’albero, che ha avuto come centro di diffusione la Siria, produce frutti commestibili, dolci e carnosi e si è propagato in tutte le regioni dal clima caldo e temperato ed interessa soprattutto il Mezzogiorno d’Italia e, in particolar modo, le attuali province di Brindisi, Lecce e Taranto.
Essendo poi molto produttivo e gustoso, questo frutto risulta adatto al consumo diretto o per essiccamento, crudo, oppure ancora cotto al forno e quindi mandorlato: metodo gastronomico tradizionale di Ceglie Messapica che, con rammarico di tutti, va gradualmente scomparendo, sostituito dall’uso sistematico di alcune varietà di frutti esotici, imposti con insistenti messaggi subliminali dalle multinazionali che la fanno da padrone nella odierna società globalizzata.
A Ceglie, per secoli, è andata, si può dire, “alla grande”, fino a poco oltre la metà del secolo scorso, la coltivazione di questi fichi detti, ottati, che si moltiplicano per talea, polloni, propaggine e per innesto. La manipolazione dei frutti che si riproducono per partenocarpìa (cioè, riproduzione sessuata in cui l’uovo oppure l’oosfera si sviluppano senza fecondazione) costituiva una voce basilare nell’asfittica economia agricola della Città: confezionati in cestelli di paglia, venivano spediti nel nord dell’Europa, dove soddisfacevano, anche se in parte, la voglia di esotismo, di caldo sole meridionale e di mare mediterraneo di quelle popolazioni angustiate per almeno dieci mesi all’anno dal clima algido delle proprie contrade, finchè non sono stati soppiantati, all’inizio, particolarmente, dai datteri predaci, tanto da rendere la loro produzione economicamente non conveniente sì che ora se ne registra una quasi irreversibile fase di malinconica estinzione.
Sono i cosiddetti fichi nardulè, al femminile nell’idioma identitaro di Ceglie. Gruppo tassonomico di frutti che, tra tanti suoi duttili impieghi, ha avuto quello di svolgere la funzione essenziale di calmare i morsi della fame atavica di tante povere famiglie che non possedevano affatto la capacità economico-finanziaria di poter coniugare il pranzo con la cena nella stentata esistenza quotidiana delle passate stagioni, “pì ccomm u stomjk'”, placare i feroci morsi della fame per cui non esiste altro rimedio se non quello di riempire per almeno tre volte al giorno quest’organo gastrico tanto tirannico quanto esigente.
Ma le conseguenze quali erano? Erano molteplici! Erano tante! Alcune sgradite: erano “li vierm'”, gli ossiuri, che mordevano lo stomaco stesso; che venivano “calmati” ingoiando interi spicchi di aglio, oppure dalla praticona di turno del vicinato che, con particolari formule pesudo- magiche e dolorose manipolazioni del ventre, riusciva a fare espellere gli indesiderati ospiti; era, anche, la sistematica piorrea, ovverosia la caduta dei denti, che creava enormi vuoti nella dentatura e seri problemi odontostomatologici e di cattiva digestione. Fichi nardulè: fichi d’amore, fichi di passione d’amore; fichi talmente tanto dolci, talmente tanto soavi al palato che, per esso, rappresentavano una autentica musica, una celestiale armonia, una ammaliante melodia come stupende, leggiadre, quasi divine erano le musiche del grandissimo maestro Leonardo Leo (1694-1744), il compositore di San Vito dei Normanni che, avendo studiato a Napoli, presso la stessa corte napoletana divenne in seguito maestro di cappella avendo quindi a suoi discepoli il barese Niccolò Piccinni (1728-1800) e l’aversano Nicola Jommelli (1714-1774).
Le sue composizioni vengono suddivise in 45 opere tra quelle di genere serio e quelle di stile comico: celebri i suoi oratori ed il Miserere.
Fichi Nardulè: Nardo Leo, ipocoristico del nome del musicista Leonardo Leo, Nardu Lej = nel dialetto di Ceglie, con voce tronca, nardu lè: singolare vicenda filologica, si deve pur dire, italiana e vernacolare; accattivante accostamento musicale-gastronomico. Un risultato di amabile leggerezza, di palpitante possibilità degustativa, che per secoli ha reso beate, alleviandone i perenni languori, le popolazioni della terra di Ceglie Messapica; molcendone, pur tuttavia, sia i cuori che le menti.
Ma è il Settecento l’epoca in cui il sorbetto trionfa, forse per la sua delicatezza e i suoi colori. Il fatto di essere servito in tazzine o piccole coppe, insieme al caffè e alla cioccolata ci dà l’immagine della vita settecentesca. E’ alla fine di questo secolo che il gelato si democratizza, nel senso che non è più solo ad appannaggio dei grandi signori; le ricette per i sorbetti appaiono in testi di gusto decisamente popolare. Uno, stampato a Bologna nel 1764, il Nuovo trattato di qualsivoglia sorte di vernici comunemente dette della China, ha in appendice un ricettario di pasticceria nel quale troviamo ricette per sorbetti di limone, di semi di melone, di mandorle, di fragole di Persico, di sugo d’Agresto e per finire, un gelato. C’è anche un’altra opera uscita a dispense a Firenze nel 1785, l’Oniatologia, ovvero discorso de’ cibi con le ricette e regole per ben cucinare. Anche qui le creme gelate fanno parte di un repertorio sicuramente popolare. Ormai l’uso della gelateria è talmente diffuso che entro normalmente nei ricettari. Vincenzo Corrado nel suo Cuoco galante suggerisce una quantità di sorbetti intesi proprio come cosa “galante”, cioè di buon gusto e di raffinatezza. E anche l’altro grande autore della fine del Settecento, Francesco Leonardi, cuoco di Caterina di Russia, nel suo Apicio Moderno dedica tutto il secondo capitolo dell’Arte del Credensiere ai sorbetti, gelati di frutta, latte, vaniglia, panna, uova e cioccolata. Ma sarà l’Ottocento che vedrà il definitivo trionfo del gelato e sarà il secolo borghese che darà il maggiore impulso alla sua diffusione grazie anche alla produzione industriale del ghiaccio artificiale. Tutti i trattati gastronomici dell’Ottocento inseriscono quasi obbligatoriamente il gelato come conclusione del pranzo, manca tuttavia in Italia un’opera specifica sull’argomento. Solo nel 1911 apparirà a Milano per l’editore Bietti un Trattato di gelateria,. L’autore è Enrico Giuseppe Grifoni, che nella prefazione parla diffusamente di sé e del proprio lavoro: nato a Panicale in provincia di Perugia, dopo un lungo apprendistato a Napoli, è per molti anni titolare di una gelateria a Bologna. Fra i suoi clienti, i personagi più in vista dell’epoca, dal cardinale Svampa a Giosuè Carducci. Il trattato di Grifoni sarà seguito nel 1912 dal bellissimo manuale Hoepli di Giuseppe Ciocca: Gelati, Dolci freddi, Rinfreschi, Bibite refrigeranti, Conserve e Composte di frutta e l’arte di ben presentarli. Opera fortunata che avrà numerose edizioni. E’ di questi anni anche una pubblicazione di Adolfo Giaquinto che tasforma un opuscolo pubblicitario della gelateria Monterosa in un piccolo trattato di Istruzioni e ricette per Gelati, Granite e Gramolate, il primo a carattere esclusivamente famigliare, segno questo che ormai il gelato non è più solo opera di professionisti. Un’altra conseguenza della sua diffusione è la figura del gelataio ambulante col suo fantasioso carrettino che dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni ’60 del secolo scorso farà parte del paesaggio urbano.

Gaetano Scatigna Minghetti

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Di Redazione Ceglie Plurale

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